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La corsa de noartri.

 

GaroCorsa“Quanti chiometri? Niù Iorc?”. Generalmente queste, sono le due domande regine, quando al Garolfo capita di esordire con un  “faccio le maratone”. E allora, il Garo risponde che le maratone son tutte lunghe 42,195 chilometri e che no. “Niù Iorc non ancora, e che forse mai sarà”. Ma all’estero si, la gran parte. Nulla contro il Bel Paese, s’intende. Ma varcati i confini nazionali, al Nostro, correre piace di più. Per una serie di ragioni che, per non annoiare, riassume essenzialmente in due.

  1. La burocrazia. In Italia è richiesto il certificato medico. Per il Garolfo trattasi di finto uelfer (o uelfer ipocrita). Nel senso che, più che sull’obbligo della visita medica, sarebbe necessario puntare  sulla cultura del benessere individuale: “So che la maratona comporta uno stress fisico notevole, sarò quindi io a decidere se, e soprattutto quando, sottopormi a controllo medico”. A tal riguardo, risulterebbe semplice una valutazione sull’efficacia dell’obbligo normativo nostrano. Prendo due maratone con il medesimo numero di iscritti. Firenze e Monaco di Baviera, ad esempio. Per partecipare alla prima serve il certificato medico di attività agonistica, per partecipare alla seconda, manco per idea. Vado sul sito, faccio click, pago, e l’iscrizione è fatta. Dunque, se il numero di “incidenti” in gara sarà il medesimo, allora se ne dedurrà che l’obbligo italico è utile solo perchè “anche i medici dello sport tengono famiglia”. In italia vige inoltre l’obbligo di iscrizione annuale ad una associazione sportiva. Come se una gara podistica possa essere vissuta appieno solo da chi coltiva l’associazionismo sportivo. Ecco che allora il Garolfo rivendica l’oblio podistico. Il diritto cioè di allenarsi e partecipare a gare come individuo in grado di scegiere, di volta in volta, con chi correre, in gara e fuori. Di associarsi, certo. Ma solo se lo desidera. Evitando così il pagamento di quote associative mal tollerate, che appaiono quindi come inutili ed onerosi balzelli destinati a foraggiare le Federazioni ed i loro dirigenti con tre pappagorgie, comodamente assisi dietro romane scrivanie in mogano.
  2. La cultura sportiva.  All’estero, una maratona, una mezza, una baby run, sono una festa. Abitanti trascinati in strada dall’irrefrenabile richiamo dell’evento. Muri di folla, musica, balli, striscioni d’incitamento, applausi dal primo all’ultimo concorrente. Quante volte il Garo, con cotal cornice, si è sentito un’atleta di grido nonostante fosse quasi l’ultimo tra gli ultimi. Nella penisola italica, regno incontrastato dell’Omus Autocentricus, tutto è invece più complicato (ad essere magnanimi). Automobilisti in preda a scimmie che si attaccano al clacson sbattendo irati le mani sul volante. Perchè la strada è chiusa per un paio d’ore e lo spezzatino domenicale della suocera si fredda. Nella migliore delle ipotesi, poi, si corre in un deserto  urbano ammantato d’un silenzio di indolente indifferenza che rasenta il fastidio. Perchè l’italico medio è uno sportivo da divano e televisore.  Che ignora, per lo più, le gioie, le passioni, le fatiche, dello sport “sudato”.

Al Garo spiace quindi constatarlo. Ma l’Italia non è (ancora) la patria del correre gioioso e spensierato.

Traguardi e traguardi.

La mente del Grolfo va alle centinaia, migliaia di piedi, che picchiano sull’asfalto, per riscaldarsi. Ai pettorali (non quelli di carne, s’intende), che fanno bella mostra di sé, ben assicurati con le spillette da balia. Alle file per fare pipì. Alla mandria di atleti, pseudo atleti e tapascioni che si muovono all’unisono dopo lo sparo, serbando, fin da subito, l’energia necessaria per le ore a venire.  Ma, soprattutto, alla sommità di quella rampa. Ove il nostro scorge una fila di vecchi uomini e donne plaudenti, all’esterno di una struttura a loro dedicata. Alcuni in piedi, altri seduti su sedie con gambe. O con ruote. Il Garolfo svicola di qualche metro dal percorso, risale la rampa e, come (enfatizzando questo come) un atleta navigato che concede un tributo ai propri tifosi, batte il cinque a ciascuno di loro. Che contraccambiano, apparentemente emozionati, con sorrisi, occhi lucidi e pacche di incitamento. Un’emozione fin quasi alla lacrima pervade il Garo, il quale si gira per rivolgere un ultimo cenno di saluto e deferenza a cotanta nobiltà umana. Nell’istante, il Garolfo, non s’accorge. Ma, giunto, si rende conto che questa volta, lo striscione dell’arrivo, era proprio là. Invisibile. Sull’uscio di quella casa di riposo.

Suole calde.

Il Garolfo è reduce dalla sua quinta impresa epico-sportiva. Portata a termine anche grazie al supporto fisico e morale della Ciurma del Sabato (e della domenica), all’uopo catapultata (quasi) al completo in terra tedesca per raccogliere il precipitato di tanti freddo,  pioggia, levatacce, qualche acciacco muscolar-scheletrico-articolare (procurato da malsane pratiche di eco-bondage), molta gioia, abbondanti chiacchiere e artigianali tabelle di allenamento.

E ancora ha impresse nella sua (seppur poco poco capiente) memoria, le immgini dello splendido habitat urbano di Freiburg im Breisgau e dei suoi calorosi abitanti (nonché studenti-ospiti) dotati di evidenti e apprezzate inclinazioni Rock & Soul. E già, nel seno della ciurma, prendono ad annidarsi i piani per l’evento prossimo venturo. In proposito, il rabdomante delle maratone pare puntare, ancora una volta, verso nord.

VerdeBiancoRosso.

Alla umida e rosseggiante alba di pianura.

Al rituale (1) del con pane tostato e miele (su gentile offerta).

Ai rituali  (2) dell’incerottamento, dell’invaselinamento, della vestizione (previa saggio della temperatura esterna).

Al (breve) viaggio nella mattina brumosa, verso l’ammassamento.

Al sopraggiungere, alla spicciolata, di tutti i temerari (e professionisti) del podismo.

Al deposito borse sulle gradinate del palasport (in un brulicare di colori e tute recanti le effigie delle società sportive).

Al preservativo (gigante) posto ad ultima barriera alle intemperie.

Alla corsetta riscaldante (che fa anche un pò atleta consumato).

Ovviamente, al via.

All’esordio con il botto.

Al botto che un poco si attutisce al passar dei chilometri. Durante i quali pagare (senza traumi eccessivi), dazio.

Al podista con Golden Retriever giocherellone (e ciotola).

Agli innamorati (1) sempre per mano.

Agli innamorati (2).  Moglie in sella a bicicletta per elagire bombe e pacche di incitamento sul sedere.

Agli atleti fraterni (che si chiedono il permesso per scappare via).

Ai bicchieri di acqua fresca e alle spugne calde.

Ai centonovantacinque metri (che paiono molto più lunghi di centonovantacinque metri).

Alle gambe di legno.

Alla (conseguente e agrodolce) pena di scendere e salir le scale (siano queste proprie od altrui).

Alla doccia calda e vaporosa nello spogliatoio (che diventa la agorà delle esperienze).

All’ottima cioccolata in tazza (con le persone più care e tanto di medaglione al collo). In una (non troppo qualsiasi), domenica pomeriggio.

Alla gradita (per l’ospite) ospitalità di un caro amico. In occasione della alttrettanto gradita Maratona della Città del Tricolore.