Alberi.

Il Garolfo, con lo zaino arancio in spalla, incede tra i solchi profondi lasciati dalle ruote spesse e dure dei trattori dal braccio lungo, che ne hanno ghermito le spoglie. All’orizzonte, una brulla steppa che fu di abeti e larici, punteggiata da radici divelte dalla loro terra. Poi, sul versante più riparato del Monte, eccoli riapparire. A volte radi, a volte fitti. L’hanno chiamata con un nome docile e musicale. Vaia. Quella furia improvvisa e cinica che ne ha fatti volare a milioni. Come stuzzichini, come tesserine di un domino effimero, come bicchieri di carta vuoti sul tavolo del parco, dopo la festa di compleanno della piccola Linda. Migliaia di ettari di bosco tosati, in un pugno di ore. Il Nostro si siede su un ceppo e osserva i Fratelli rimasti. Alcuni di loro giacciono in piedi. Come mummificati. Di un color marrone morte. Perché, poi, capita che piova sul bagnato. O che un delinquente bastoni il cane che sta per affogare. E, così, con il bosco. Accade, quindi, che molti sopravvissuti alle raffiche, per loro fortuna, tenacia (o resilienza, che va tanto di moda), siano divorati sottopelle dal coleottero col nome simile a quello della Colla Universale. Sarebbero da estirpare tutti per contenere il contagio, dicono. Ma non si può, perché i versanti ‘verrebbero giù’. E, allora, tanti di loro, sono lasciatati là, quasi a monito.

Il Garo si attacca alla sua borraccia e li osserva. Confidando nella capacità ultima e straordinaria della natura, di rigenerarsi. Nonostante. Nella speranza che l’Uomo, per sussulto autoconservativo, con responsabilità, visione e un minimo d’amor proprio, inverta la rotta. Senza troppi pretesti, proclami. E molto, molto presto.

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