Il Garolfo si ricorda quando, nell’inverno della Scuola superiore, nel caldo della sua stanza, prima del sonno, sfogliava con avidità le pagine di un libricino bianco con raffigurato in copertina un signore intabarrato, dal profilo fiero e forse sofferente. Neve che punge il viso, stracci, caffè pestato nell’elmetto con il manico della baionetta. Il sogno di un bel gatto per Natale, “grosso e scontroso” per mangiare e per fare un bel cappello. I moschetti, i pidocchi scoppiettanti buttati sulla piastra arroventata della stufa, gli usci delle isbe, le vedette russe, il Don, il fiato gelato sulla barba e sui baffi. La stanchezza e il peso delle armi, le membra intorpidite che non obbediscono. Le bestemmie e le sigarette. Le giberne, i passamontagna e le lettere della morosa agitate in alto. “Sergentemagiù, ghe rivarem a baita?”. Il Garo apprende con tristezza che il Sergentemagiù, a baita , ci è arrivato. Cammina nei suoi amati boschi, tra i suoi amati monti. Consapevole, forse, che il suo viaggio rivive nella mente, negli occhi e nel cuore di chi lo legge.
“L’anno dopo che ero ritornato, una sera che nevicava, forse era in questi giorni di dicembre, ho preso gli sci e sono uscito a sciare, di notte, per il bosco. E nella neve ho ritrovato i miei compagni”.
Marco Paolini – Il Sergente.