Alberi.

Il Garolfo, con lo zaino arancio in spalla, incede tra i solchi profondi lasciati dalle ruote spesse e dure dei trattori dal braccio lungo, che ne hanno ghermito le spoglie. All’orizzonte, una brulla steppa che fu di abeti e larici, punteggiata da radici divelte dalla loro terra. Poi, sul versante più riparato del Monte, eccoli riapparire. A volte radi, a volte fitti. L’hanno chiamata con un nome docile e musicale. Vaia. Quella furia improvvisa e cinica che ne ha fatti volare a milioni. Come stuzzichini, come tesserine di un domino effimero, come bicchieri di carta vuoti sul tavolo del parco, dopo la festa di compleanno della piccola Linda. Migliaia di ettari di bosco tosati, in un pugno di ore. Il Nostro si siede su un ceppo e osserva i Fratelli rimasti. Alcuni di loro giacciono in piedi. Come mummificati. Di un color marrone morte. Perché, poi, capita che piova sul bagnato. O che un delinquente bastoni il cane che sta per affogare. E, così, con il bosco. Accade, quindi, che molti sopravvissuti alle raffiche, per loro fortuna, tenacia (o resilienza, che va tanto di moda), siano divorati sottopelle dal coleottero col nome simile a quello della Colla Universale. Sarebbero da estirpare tutti per contenere il contagio, dicono. Ma non si può, perché i versanti ‘verrebbero giù’. E, allora, tanti di loro, sono lasciatati là, quasi a monito.

Il Garo si attacca alla sua borraccia e li osserva. Confidando nella capacità ultima e straordinaria della natura, di rigenerarsi. Nonostante. Nella speranza che l’Uomo, per sussulto autoconservativo, con responsabilità, visione e un minimo d’amor proprio, inverta la rotta. Senza troppi pretesti, proclami. E molto, molto presto.

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Liberi.

Il Garolfo osserva ammirato gli spot televisivi delle macchine. Che percorrono con autorevolezza strade deserte, viscide, libere da umanità, da riferimenti sociali, da ostacoli di qualsivoglia natura e genesi. Le uniche comparse umane ammesse, sono i conducenti e gli spettatori forzatamente incantati dal transito regale di tali meraviglie della tecnica, dotate di livree brillanti e musi cattivi. Che solcano battigie, guadano fiumi, attraversano boschi, calcano ghiacci, scivolano in ambienti urbani abbandonati dalla civiltà. Fondendosi idealmente con la natura che le sospinge fino (e oltre) il limite. Favole a video che creano un’illusione di libertà illimitata, che non si deve prendere cura, che non è tenuta a condividere lo spazio, a prestare attenzione. Il possesso di un’auto sportiva (a bordo della quale la guida non può che essere sportiva), legittima a fare ogni cosa (in teoria), senza nuocere. Con buona pace della percezione realistica del rischio nel governare una cosa che può fare male. Auto che ‘ampliano gli orizzonti’ (tipo le volte annerite dallo smog delle gallerie o i solai scrostati dei viadotti, ammirabili da mirabolanti ‘tettucci panoramici’). Che ‘liberano da schemi e status symbol’. Dove non vorrai mica insinuare che lo ‘schema’ sia il Codice della Strada. Scatole di lamiera che prendono il nome degli stessi passi dolomitici che hanno deformato a loro immagine. Cose che ‘il progresso si misura in emozioni’ dove il bolide basso scende lungo i tornanti innevati di monti meravigliosi, a velocità invereconda. ‘Queste non sono condizioni difficili, non esistono’. ‘Questo è ghiaccio, e quindi?’ ‘La ricerca della libertà, ci ha portati qui’. ‘Elettrifica i tuoi sogni’.

Insomma. Per certo marketing, guidare è un gioco, una sfida agli schemi, un andare oltre. Ma, in caso di ‘game over’ non è sempre detto che si possa ricominciare da capo.

P.S. 1. I virgolettati sono alcuni riferimenti a spot televisivi di automobili, riportati fedelmente.

P.S. 2. La lotta alla violenza stradale non può non partire anche dall’analisi di modelli comunicativi distorsivi della realtà e potenzialmente molto dannosi.

Uno, uno, uno.

Il Garolfo osserva le scatole di lamiera fumanti, ferme al semaforo. Uno, uno, uno, uno. Il Nostro conta i loro occupanti, nel complesso molti meno dei tubi di scappamento che emettono effluvi vaporosi di monossido di carbonio, trafitti dalle vivide luci rosse a led dei lati B. Pensa alla loro innocua tossicità, quando sono ferme. Pensa altresì, però, a quanto possano essere potenzialmente distruttive quando corrono forte, nelle sterminate praterie d’asfalto che hanno riservato loro buona parte delle città nel mondo.

Il Garo pensa a come non passi giorno senza leggere cronache di incidenti stradali, anche gravi, con persone che perdono la vita o si fanno molto male. Ed alle corrispondenti narrazioni giornalistiche, nelle quali si tende a derubricare gli accadimenti a ‘fatalità’. Celebri le ‘auto impazzite’, come si trattasse di entità senzienti, dalla lucidità perduta. I ‘pirati della strada’, che si muovono su vascelli di latta, battenti bandiere teschiate. Le ‘strade assassine’, che giacciono apparentemente innocue, ma munite in realtà di rivoltelle, coltellacci e bombe a mano . Il Nostro non percepisce una presa di coscienza sul tema, nel suo complesso, da parte dei politici nostrani.


Nessuna campagna incisiva sulla sicurezza stradale, nessun intervento deciso per ridurre il numero dei mezzi a motore circolanti, politiche troppo timide (se non inesistenti) per puntare seriamente e decisamente sul Trasporto Pubblico Locale, sulla pedonalità, sulla ciclabilità, sulla moderazione della velocità, sulla legittima restituzione di spazi urbani (ormai diventati non-luoghi), a bambini ed adulti.
Al contrario, fiumi di cemento colati su opere stradali, per inseguire il miraggio della ‘fluidificazione del traffico,’ come si trattasse di liquame in una fogna ineluttabilmente intasata. Montagne di denaro pubblico ai cittadini, per permettere loro l’acquisto, con lo sconticino, proprio di quella quattroruote fiammante che nello spot in TV sfreccia, solitaria, sui monti innevati, nei boschi autunnali, sulle battigie, nelle città sorprendentemente affrancate dal traffico. Sottacendo che se si persevera nel costruire strade (o allargare ulteriormente quelle esistenti), si avranno sempre più auto che le percorrono, a velocità sempre maggiore. E, chi cammina e pedala, sarà relegato, ancor più, ai margini, a loro volta minacciati da una sorda, arrogante, invadente, violenza stradale.
Al Garolfo sembra, in sostanza, che si rimuovano, dolosamente, quei drammi quotidiani che coinvolgono centinaia di famiglie. Drammi che faticano ad entrare in un dibattito pubblico degno di tale nome. ‘Mali necessari’, ‘ineluttabili’. Insiti nella inarrestabile modernità della combustione interna o del verde motore elettrico.

Ventidue.

Il Garolfo, dopo aver brindato in compagnia di Morfeo, decide di andare a prendersi un po’ di gioia. Opta per la giornata di oblio montana. Levata di buon’ora, freddo e buio che cedono il passo ad una temperatura quasi primaverile e ad un sole che rompe il blu del cielo, solcato da qualche timido aeroplano al quale, il Nostro, rivolge il suo ricorrente “Ehi. Lassù”. E poi ci sono i larici spogli, quel venticello che soffia solo oltre le selle, la neve polverosa e battuta che fruscia sotto gli scarponi, muniti di aculei per l’occasione. La fiaschetta che riempie di leggera ebbrezza alcoolica le frequenti soste, il bivacco con il quadernetto colorato per i pensieri dei camminatori. Non molti, per quanto. Ma che “salutano sempre” (come accade alle povere vittime di cronaca nera raccontate dai giornalisti nostrani).

Sulla via del ritorno il Garolfo si imbatte in due giovani ragazzi. Camminano sulle loro ciaspole a qualche metro di distanza. Non si parlano e lui è serio. Arrivano al passo. Si fermano. Lui, testa bassa, disegna, con le racchette, misteriose figure sulla neve. Lei lo guarda. Lui non parla. Lei giace in piedi con gli occhi un po’ lustri e le braccia abbandonate lungo il corpo esile. Lui bofonchia qualcosa all’indirizzo della neve. Poi parla lei, all’orizzonte montuoso. Poi silenzio, ancora. Ecco. Ci siamo. Un amore finisce. Poi il Garolfo si ricorda la data e si convince che no. Non può finire un amore oggi. Perchè, pensa il Garo, in realtà quell’amore non è finito oggi, ma ieri, l’altro ieri o addirittura un mese o due fa. Ma loro se ne accorgono solo oggi. La forma è oggi, ma la sostanza, no. Oppure. Non è per nulla finito, quell’amore. E la situazione appare così articolata, drammatica ed irreparabile solo perché lui stamattina si è dimenticato di versare i croccantini al gatto di lei, che poi succede che quando è affamato si arrampica sulle tende. E quindi si ameranno per sempre. O, almeno, per i prossimi 364 giorni e mezzo.

Quindi, ragazzi miei, suvvia. Fate a modino. E’ una splendida giornata. Datevi un bacio, bevetevi una birra fresca e mangiatervi una fettona di strudel giù alla malga e poi andate a casa a riscaldarvi facendo all’amore. Che noi grandi, in questo ventidue, stiamo riponendo più di una aspettativa e non possiamo mica partire col piede sbagliato fin dalle prime ore. Intesi?

Regine.

GaroPigna

Il Garolfo, assicurando ai piedi i fidi scarponi, intravede il sole sorgere sul limite del monte. Oltre due larici, vicini tra loro ma non troppo, che si osservano, amicali e diffidenti, dai lati della strada. E si chiede chi abbia mai detto, scritto o pensato, che le albe del mare siano le più belle. Quindi incede, di buon passo, allontanandosi sempre più dal livello di quel mare. Un signore con stivaloni verdi ed una tuta blu da metalmeccanico, fischiando, spinge vacche fuori da uno stallone dal tetto in scandole, aiutato da un canide in bianco e nero che si industria a direzionare le bestie tenendole unite, guaendo deciso e mordicchiando le loro caviglie. Solo una, incurante degli esseri viventi a due e quattro zampe, si infila nel boschetto sul lato opposto. Senza dare, ma solo apparentemente, nell’occhio. Col suo fare pervicace, ribelle e mansueto, si è guadagnata un oblio stagionale d’alpeggio. Una noncuranza vigile e controllata. Un quieto vivere ruminante. La libertà dei saggi. Ecco, pensa il Garo. Dopo la mosca bianca e la pecora nera, c’è lei. La pezzata rossa. La salita si fa ripida, la strada bianca sempre più bruna e meno bianca. E larga. Dopo un ponticello di legno, ricompare Lei. Dopo anni, lustri, decenni. Come una donna bella fuori e dentro. Che non invecchia mai. Legno scuro bruciato da sole ed intemperie. Tetto a due falde. Titolo nobiliare scritto a rami sulla facciata. Placidamente adagiata nel bosco più fitto. Ed il pensiero del Garolfo vola fino a quando, da ragazzi, ci si accorse che si poteva bere la birra a fiumi sui muretti del paese, anche senza portarla su in spalla, alla sera, per raggiungere Lei. Vola fino a quando la poesia finì. Ma il sentiero non concede tregua, neppure per i flescbec. Sale, cattivo, indomito e noncurante. Radice dopo radice, pietra dopo pietra. Filo d’erba dopo filo d’erba. Che fa il solletico alle gambe nude e le bagna con la pioggia della sera prima. Il sole prende ad inondare i monti  che par si stringano attorno al Nostro come una corona d’oro attorno ad un regal capo. Abeti e larici cominciano a lasciare strada, ai loro simili più bassi, umili e raccolti. Il suono lontano di qualche campanaccio si mescola debolmente al rumore silenzioso e piano dell’acqua che accarezza il letto di terra e avvolge sassi tondi e muschiosi. Poi, il silenzio. Passi, respiro, un debole vento che pettina erba e cespugli. Passi e respiro. Ancora. Qualche volatile di forma e piumaggio sconosciuti. Quindi pietre. Grigie, nere, rossastre. Enormi e minute. Tonde o appuntite. Tozze od ossute. Stabili o ballerine. Accoglienti od inospitali. Prima pucciate in un manto verde come le amarene nel gelato amarena. Quindi sole, stipate le une accanto alle altre. Le suole le suonano, facendole cozzare. Le mordono, aiutate da vista, palmi e dita. Eccola, la punta. Pare là. A dieci, sette, quattro passi. E invece no. A dieci, quaranta, cento e più. Ma il Garolfo và un pochino più veloce di lei. Poche nuvole. Monti, valli, monti, valli. A perdita d’occhio. Il sole, ora alto, bada a tutto. Il Garolfo adagia lo zaino. Più su, solo cielo. E allora respira e osserva. Felice. Di una felicità pacata, senza picchi. Quasi a non volerla consumare tutta. Che solo le cose semplici, così straordinarie, sanno donare.

Traversine.

treno

Il Garolfo osserva la catasta di traversine di legno, quelle maleodoranti di idrocarburi, ma tanto più romantiche delle loro successore in cemento armato. Giacciono là, ai bordi del binario morto. Coperte, alla buona, da un telo verde ed in attesa del loro ultimo viaggio verso destinazione ignota. Prima di attaccare il predellino, il Garo lancia un’ultima sfuggente occhiata alla banchina, ove un numero indefinito di individui in attesa e col viso blu displei, tiene lo sguardo basso sul proprio còso da lisciare col dito. Come se tutto quel che si stagliasse a due, tre, cento metri, fosse ivi racchiuso. Assieme alla rimanente fauna, flora ed oggettistica che popola il mondo. Il Garo percorre la pancia del serpente ferroso alla ricerca di un posticino, schiacciando pulsanti che aprono porte sferraglianti che dànno accesso a quel limbo tra le carrozze fatto di aria gelida, pedane sbatacchianti e viste sulla massicciata. Transita quindi accanto alla variegata umanità che assume la forma dei seggiolini sui quali s’adagia. Chi dorme, chi legge, chi ulula al telefono a che ora arriverà, chi lavora. O finge di farlo. Il Nostro giunge a destinazione. Posto finestrino. Si interroga, per qualche secondo, se a muoversi sia il convoglio che ha sotto il posteriore o quello accanto. Dandosi, alfine, una risposta. Sospira. Giudicandosi a totale proprio agio sul suo mezzo di trasporto preferito; quello dove puoi raccontare vite a sconosciuti che non incontrerai mai più. Ora l’amico treno corre liscio, silenzioso e veloce lungo la pianura anonima. Piove. Una gocciolina spunta improvvisa facendosi avanti, lungo il finestrino in corsa. Tremolante e timida, lo attraversa tentennando. Facendosi, infine, in un angolo. Fino a scomparire, impavida ed ebbra per l’impresa. Come il pensiero di una sera.

Alberi maestri.

lares

Il Garo si deterge la fronte staccando la mano destra dal manubrio, senza interrompere l’impegnativa cadenza pedalatoria. Pensa, non senza sorridere, alla rossa e vetusta bici “cancello in ferro battuto” che si trova a cavalcare. Roba da far impallidire (dal ribrezzo), i moderni muntain baichers che solcano la ripida strada sterrata a bordo di lucidi e lievi bolidi, fatti di leghe pregiate e che emettono melodici rumori meccanici che un qualsiasi orologio svizzero, scànsate. Il Nostro scruta gli sbuffi di grigio via via più scuro che si affastellano come strati di una torta alle creme sopra un un cielo che fu blu e annusa l’aroma di una pioggia non distante. Folate di vento prendono a pogare l’una contro l’altra, in una danza senza palco, scenografia né balera, in cui gli spettatori più autorevoli sono loro maestà. Slanciati, imponenti, meditativi ed oscillanti. Quasi a voler assecondare i balli dell’amico invisibile. Frusciano forte, si animano, scortecciano, agitano le loro braccia legnose e scricchiolanti quasi a voler cingere d’amore i vicini. Sì. I vicini. Perchè i larici formano la loro grande comunità montana. Solidali, uniti nel proteggersi e proteggere il bosco fino a sapersi immolare per una qualunque causa. Si protendono verso terra, senza mai cedere. Maledicendo quella resilienza così di moda, che, alle volte, non sarebbe poi così male spezzarsi. Tutti tra loro vicini, ma non troppo. Perché, in fin dei conti, ognuno di loro è solo. Solo accanto agli altri. Con la sua vita, la sua storia, le sue radici. Le sue cicatrici di tempo ed intemperie, dalle quali capita che colino appiccicose gocce di resina trasparente. Solo di una solitudine velata, inconsapevole, nascosta sottocorteccia. Solo. Perchè non ha mai vissuto presenze importanti. Silenti, loro. Fino a quando non decidono di dar voce all’impeto del vento. Che non si vergognano, come i loro cugini abeti, di cambiarsi d’abito e denudarsi, per poi rivestirsi di un colore vivido e tenero, come per onorar l’invito ad una festa o ad una pizza galante. D’improvviso una pioggia bianca, diritta e decisa, inizia a pettinarli. E solo allora, il Garolfo, pur consapevole di non essere solubile in acqua, opta per trascinare sé stesso ed il suo ferro a due ruote sotto una tettoia di scandole. Si siede su un sasso muschiato. Li osserva pensoso con la mente che viaggia verso altri chi, altri dove, altri quando. Sostenendosi il mento con la mano destra. “Ditemi, larici cari. Vi ascolto. Ho tempo. Tutto il tempo che volete”.