Il Garolfo scruta la dama adagiata sulla sdraio dal telaio nero e intrecciata di bucatini di plastica di colore blu elettrico. Come quelle di una volta. Treccia lunga e bionda, di bianco leggero vestita, testa inclinata su un lato e cappellino su quello opposto. Con un libro, chiuso, posato nei pressi, osserva la palla infuocata tuffrasi nell’orizzonte e disegnare sull’acqua, fino alla riva erbosa, un tiepido e tremolante sentiero di luce. Il Garo nota come pare bastare a sé stessa. E all’orizzonte che osserva. Nessuna ansia, nessuna traccia di smartfon, nessuna fretta di sacrificare l’istante sull’altare dell’io sono qua, dell’oggi io così. Il lieve dondolare abbandonato alla gravità del piede nudo, denota un’arte. Quella di saper stare in un luogo. Ed in quello soltanto. Esercitata da chi è arrivato con il corpo portando con sè pure la mente, l’anima. Da chi sa assaporare l’essenza di un panorama, di un odore, di un suono. Di un istante. Come fini a sé stessi, in maniera finemente egoista e non affetta dalla bulimia da condivisione tecnologica a tutti i costi. Che depaupera, annacqua, sottrae autenticità, intimità e segretezza.
Pedalando oltre, il Nostro lancia un ultimo sguardo a quella nuca, rivolgendo il pensiero ai lontani amici della graziosa fanciulla, che avranno il dono, a tempo debito (e solo a tempo debito), di godere di quei momenti per il tramite della sua voce. Oltre che di festeggiarla, riabbracciandola, al suo ritorno nella lontana città. Perché ogni ritorno presuppone una vera partenza. Foss’anche per un solo istante, per una sola sera. Per un sol tramonto.