Il Garolfo, assicurando ai piedi i fidi scarponi, intravede il sole sorgere sul limite del monte. Oltre due larici, vicini tra loro ma non troppo, che si osservano, amicali e diffidenti, dai lati della strada. E si chiede chi abbia mai detto, scritto o pensato, che le albe del mare siano le più belle. Quindi incede, di buon passo, allontanandosi sempre più dal livello di quel mare. Un signore con stivaloni verdi ed una tuta blu da metalmeccanico, fischiando, spinge vacche fuori da uno stallone dal tetto in scandole, aiutato da un canide in bianco e nero che si industria a direzionare le bestie tenendole unite, guaendo deciso e mordicchiando le loro caviglie. Solo una, incurante degli esseri viventi a due e quattro zampe, si infila nel boschetto sul lato opposto. Senza dare, ma solo apparentemente, nell’occhio. Col suo fare pervicace, ribelle e mansueto, si è guadagnata un oblio stagionale d’alpeggio. Una noncuranza vigile e controllata. Un quieto vivere ruminante. La libertà dei saggi. Ecco, pensa il Garo. Dopo la mosca bianca e la pecora nera, c’è lei. La pezzata rossa. La salita si fa ripida, la strada bianca sempre più bruna e meno bianca. E larga. Dopo un ponticello di legno, ricompare Lei. Dopo anni, lustri, decenni. Come una donna bella fuori e dentro. Che non invecchia mai. Legno scuro bruciato da sole ed intemperie. Tetto a due falde. Titolo nobiliare scritto a rami sulla facciata. Placidamente adagiata nel bosco più fitto. Ed il pensiero del Garolfo vola fino a quando, da ragazzi, ci si accorse che si poteva bere la birra a fiumi sui muretti del paese, anche senza portarla su in spalla, alla sera, per raggiungere Lei. Vola fino a quando la poesia finì. Ma il sentiero non concede tregua, neppure per i flescbec. Sale, cattivo, indomito e noncurante. Radice dopo radice, pietra dopo pietra. Filo d’erba dopo filo d’erba. Che fa il solletico alle gambe nude e le bagna con la pioggia della sera prima. Il sole prende ad inondare i monti che par si stringano attorno al Nostro come una corona d’oro attorno ad un regal capo. Abeti e larici cominciano a lasciare strada, ai loro simili più bassi, umili e raccolti. Il suono lontano di qualche campanaccio si mescola debolmente al rumore silenzioso e piano dell’acqua che accarezza il letto di terra e avvolge sassi tondi e muschiosi. Poi, il silenzio. Passi, respiro, un debole vento che pettina erba e cespugli. Passi e respiro. Ancora. Qualche volatile di forma e piumaggio sconosciuti. Quindi pietre. Grigie, nere, rossastre. Enormi e minute. Tonde o appuntite. Tozze od ossute. Stabili o ballerine. Accoglienti od inospitali. Prima pucciate in un manto verde come le amarene nel gelato amarena. Quindi sole, stipate le une accanto alle altre. Le suole le suonano, facendole cozzare. Le mordono, aiutate da vista, palmi e dita. Eccola, la punta. Pare là. A dieci, sette, quattro passi. E invece no. A dieci, quaranta, cento e più. Ma il Garolfo và un pochino più veloce di lei. Poche nuvole. Monti, valli, monti, valli. A perdita d’occhio. Il sole, ora alto, bada a tutto. Il Garolfo adagia lo zaino. Più su, solo cielo. E allora respira e osserva. Felice. Di una felicità pacata, senza picchi. Quasi a non volerla consumare tutta. Che solo le cose semplici, così straordinarie, sanno donare.
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