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Traversine.

treno

Il Garolfo osserva la catasta di traversine di legno, quelle maleodoranti di idrocarburi, ma tanto più romantiche delle loro successore in cemento armato. Giacciono là, ai bordi del binario morto. Coperte, alla buona, da un telo verde ed in attesa del loro ultimo viaggio verso destinazione ignota. Prima di attaccare il predellino, il Garo lancia un’ultima sfuggente occhiata alla banchina, ove un numero indefinito di individui in attesa e col viso blu displei, tiene lo sguardo basso sul proprio còso da lisciare col dito. Come se tutto quel che si stagliasse a due, tre, cento metri, fosse ivi racchiuso. Assieme alla rimanente fauna, flora ed oggettistica che popola il mondo. Il Garo percorre la pancia del serpente ferroso alla ricerca di un posticino, schiacciando pulsanti che aprono porte sferraglianti che dànno accesso a quel limbo tra le carrozze fatto di aria gelida, pedane sbatacchianti e viste sulla massicciata. Transita quindi accanto alla variegata umanità che assume la forma dei seggiolini sui quali s’adagia. Chi dorme, chi legge, chi ulula al telefono a che ora arriverà, chi lavora. O finge di farlo. Il Nostro giunge a destinazione. Posto finestrino. Si interroga, per qualche secondo, se a muoversi sia il convoglio che ha sotto il posteriore o quello accanto. Dandosi, alfine, una risposta. Sospira. Giudicandosi a totale proprio agio sul suo mezzo di trasporto preferito; quello dove puoi raccontare vite a sconosciuti che non incontrerai mai più. Ora l’amico treno corre liscio, silenzioso e veloce lungo la pianura anonima. Piove. Una gocciolina spunta improvvisa facendosi avanti, lungo il finestrino in corsa. Tremolante e timida, lo attraversa tentennando. Facendosi, infine, in un angolo. Fino a scomparire, impavida ed ebbra per l’impresa. Come il pensiero di una sera.

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Alberi maestri.

lares

Il Garo si deterge la fronte staccando la mano destra dal manubrio, senza interrompere l’impegnativa cadenza pedalatoria. Pensa, non senza sorridere, alla rossa e vetusta bici “cancello in ferro battuto” che si trova a cavalcare. Roba da far impallidire (dal ribrezzo), i moderni muntain baichers che solcano la ripida strada sterrata a bordo di lucidi e lievi bolidi, fatti di leghe pregiate e che emettono melodici rumori meccanici che un qualsiasi orologio svizzero, scànsate. Il Nostro scruta gli sbuffi di grigio via via più scuro che si affastellano come strati di una torta alle creme sopra un un cielo che fu blu e annusa l’aroma di una pioggia non distante. Folate di vento prendono a pogare l’una contro l’altra, in una danza senza palco, scenografia né balera, in cui gli spettatori più autorevoli sono loro maestà. Slanciati, imponenti, meditativi ed oscillanti. Quasi a voler assecondare i balli dell’amico invisibile. Frusciano forte, si animano, scortecciano, agitano le loro braccia legnose e scricchiolanti quasi a voler cingere d’amore i vicini. Sì. I vicini. Perchè i larici formano la loro grande comunità montana. Solidali, uniti nel proteggersi e proteggere il bosco fino a sapersi immolare per una qualunque causa. Si protendono verso terra, senza mai cedere. Maledicendo quella resilienza così di moda, che, alle volte, non sarebbe poi così male spezzarsi. Tutti tra loro vicini, ma non troppo. Perché, in fin dei conti, ognuno di loro è solo. Solo accanto agli altri. Con la sua vita, la sua storia, le sue radici. Le sue cicatrici di tempo ed intemperie, dalle quali capita che colino appiccicose gocce di resina trasparente. Solo di una solitudine velata, inconsapevole, nascosta sottocorteccia. Solo. Perchè non ha mai vissuto presenze importanti. Silenti, loro. Fino a quando non decidono di dar voce all’impeto del vento. Che non si vergognano, come i loro cugini abeti, di cambiarsi d’abito e denudarsi, per poi rivestirsi di un colore vivido e tenero, come per onorar l’invito ad una festa o ad una pizza galante. D’improvviso una pioggia bianca, diritta e decisa, inizia a pettinarli. E solo allora, il Garolfo, pur consapevole di non essere solubile in acqua, opta per trascinare sé stesso ed il suo ferro a due ruote sotto una tettoia di scandole. Si siede su un sasso muschiato. Li osserva pensoso con la mente che viaggia verso altri chi, altri dove, altri quando. Sostenendosi il mento con la mano destra. “Ditemi, larici cari. Vi ascolto. Ho tempo. Tutto il tempo che volete”.

Gocce

drops

Quelle di “giorgiana memoria”. Quelle di cioccolato. Quelle di essenza profumata o collirio. Anche se le gocce più gradite al Garolfo, essere notoriamente crepuscolare, sono le originali. Spedite da Madre Natura con raccomandata senza ricevuta di ritorno per rammentarci della sua presenza. Le quali gocce, in ordinato stormo attratto dalla terrena gravità, formano il fenomeno meteorologico più semplice, affascinante e vitale. Le piogge. Perché, il Nostro, appassionato dell’arte podatoria e pedalatoria, le ha sentite, osservate, riconosciute, amate, le piogge. Tutte ugualmente affascinanti nella loro autonoma e fieramente rivendicata diversità. La Pioggia da carezza. Che s’adagia delicata su scenografie di foglie gialle, rosse, e marroni. Che già hanno scelto, o sono in procinto di farlo, l’affrancamento autunnale dai loro grandi e piccoli genitori vegetali. La Pioggia intransigente. Che incede incurante per la sua via senza ammettere tregue di tempo ed intensità. E si raccoglie in piccoli specchi torbidi a prova di galoscia e rivoli ciascuno in cerca della propria meta. La Pioggia Canto del Cigno. Che si concede l’ultima danza nel suo cielo chiaro. E che, già sai, lascerà spazio a grumi di nebbia, macchie di blu e scie abbaglianti di sole. La Pioggia fuoco di paglia. Bella ed effimera come la stagione che le appartiene. E, proprio come lei, densa, civettuola e frivola. Prima Attrice che si accompagna a braccetto con comparse abbaglianti e fragorose in un debutto teatrale sfavillante e sontuoso. La Pioggia austera. Eternamente indecisa, nel suo solo apparente algido rigore, sul cedere strada alla più taciturna e materna sorella neve.

Piogge che dilatano tempo e sensi. Se capita di osservarle con un tetto sopra la testa. Attraverso finestre che sventagliano in strada asciutti, gialli, rassicuranti e romantici scampoli di luce soffusa.

Piogge che diradano gli uomini dagli spazi aperti. Perché, si sa. L’essere umano, in specie se italico, è notoriamente solubile in acqua.

Prema cancelletto.

cancelletto

Il Garolfo legge incuriosito giornaletti e sitarelli pappagallo della politica in voga, realizzando come siano  diventati tanto fescion e trendi aggregazioni, fusioni, amalgame, mescolanze, inglobamenti, riunioni, accorpamenti. Di banche, aziende, Comuni, associazioni coreutiche, scuole, circoli anziani e dopolavori ferroviari. Che la spesa, anche pubblica, lungi da noi perchè è spreco. Tutto è all’insegna di risparmi, parsimonie, economie, oculatezze, spending reviù, ricerca spasmodica di misteriose masse critiche. Perchè grande, possibilmente nazionale, internazionale, mondiale e ipergalattico, è bello e risparmioso. Il Garolfo si prefigura così il Mondo dei Giganti lou cost, dove agli sportelli ci saranno macchine, che “quelle costano tanto meno dei cristiani”. Dove i furti sulle bollette domiciliate, perpetrati da aziende elefantiache, si chiameranno “anomalie di fatturazione” e potranno essere reclamati dopo aver sbattuto la capoccia su insormontabili muri di caucciù, tenuti ben eretti a suon di “completi il nostro form sul sito”, “apra un tichet onlain”, “prema uno, prema quattro, prema cancelletto e parli con un nostro operatore”. Il quale, con frasi standard da povero pollo in batteria ipercondite di “in cosa posso servirLA“, “certo, signor Garolfo, Lei ha ragione, ma”, “mi dispiace signor Garolfo, la procedura va in automatico”, darà le consuete informazioni vaghe, contraddittorie, omertose, dolosamente sibilline. Sbatacchiando il povero cristo di turno dall’operatore EA226AR all’operatore AS124MR.

Il tutto con buona pace dei territori, del particolare, del peculiare, del piccolo, agile, sociale e di prossimità. Dove le persone si incontrano, si parlano, si confrontano, si capiscono. E, magari, si strigono la mano. Bevendosi, assieme, un caffè.

A chi.

A chi ride, con il “sorr” davanti o senza.  A chi convive con il nodo in gola e a chi cerca di scioglierlo.  A chi patisce per un distacco e a chi gioisce per un incontro. A chi si abbraccia deciso al cospetto di un treno che allontana o che riunisce.  A chi guida  e a chi pedala. A chi comanda e a chi ubbidisce. A chi trasgredisce e a chi rispetta. A chi chiacchiera e a chi fa. A chi ama e a chi è (solo) amato. A chi batte cinque e a chi invidia (rancoroso). A chi strizza l’occhio e a chi fa il muso lungo. A chi viaggia e a chi resta a casa. A chi paga e a chi incassa. A chi il guinzaglio lo tiene e a chi lo indossa. A chi si butta e a chi si aggrappa. A chi va dal barbiere e a chi usa la macchinetta. A chi tiene la suoneria e a chi “meglio la vibrazione”.
A chi scivola sulla buccia di banana.

E a chi, quella buccia, la dimentica distratto sul selciato.

Buon Natale.

Dal Garo.

Misteri e Stivali.

Il Garolfo pensa alla non casualità di certi avvenimenti. Come, ad esempio, la cittadinanza italiana di certo signor Giacobbo, che il fato (Iddio, per i credenti), ha deciso di far nascere sull’italico suolo proprio in considerazione della abbondanza di materia prima da poter forgiare nella sua professione. Perché il Mistero (meglio, i Misteri), caratterizzano il Bel Paese più di quanto non faccia il Conte Vlad per la Transilvania ed il Mostro di LockNess per le lande scozzesi.

Auto in ogni centimetro quadrato di territorio con produttori che si accaniscono a farvi pubblicità in TV e politici pronti ad incentivarne la vendita, che non battono ciglio di fronte alle fabbriche di autobus che chiudono (in un Paese che necessita di mobilità pubblica come le foglioline la luce). Lo scatto alla risposta (è come se il pollivendolo chiedesse 0,50 cent solo per porgere la bestiola arrostita oltre il bancone). Il canone di 15 euro annui per il Telepass, come se si trattasse di un orpello che fa risparmiare solo l’automobilista e non l’Autostrada (eclatante esempio dell’italico motto “pagare per pagare”). Il Carburante più caro sulle strade a pedaggio. I monumenti più belli del mondo concessi come luna park ai gatti randagi (con tutta la stima per i mici). Le polizze RC auto che si chiamano bonus malus, ma che di fatto son sempre malus, anche se non fai un graffio.  Le ville dei vip antisismiche e le scuole fatiscenti. E l’elenco potrebbe proseguire in un loop infinito, ricomprendendo pure (soprattutto) i misteri meno ameni e più tragici, che hanno reso travagliata la storia recente dello Stivale.

Ecco. Al Garolfo non dispiacerebbe se il semplice deposito di una schedina sgualcita in uno scatolone (dopo averla compilata dietro una vecchia lamiera grigia con una matita dalla punta approssimativa), consentisse di disvelare almenno alcuni, di questi misteri. Difficile? Certo. Ma pur sempre possibile. Per questo, il Nostro, il suo rettangolino di carta, il prossimo fine settimana, lo andrà a buttare giù.

Bimbi e mangiatoie.

L’uvetta, i canditi. I ninnoli sull’albero e il muschio nel presepe, anche se ne è vietata la raccolta. Le luminarie dei centri commerciali e le file ordinate alle casse dei negozi. La tavoletta con internet dentro, magari con un bel contratto capestro. Il libro per il papà e le ciabatte in lana cotta per la nonna, che ha sempre i piedi freddi. L’aria chiara dell’inverno ed il bianco algido della neve (dove c’è). I segnaposto con la candelina, il rametto di abete ed il nome scritto con il pennarello argentato. Il bicchiere per il prosecco lungo e quello per l’acqua più cicciotto e basso. Il piatto fondo per il risotto alla zucca e quello piano per la tagliata. L’auto con la slitta di legno chiaro e le catene da neve nel bagagliaio. I loghi dei canali TV con la neve posticcia che cade ed il cappellino da Babbo Natale sulle ventitrè. Il fuoco nel camino che non vedi mai nassuno che si sporca le mani per metterci la legna. Le renne che non fanno mai la pupù per strada e il vecchio barbuto vestito di rosso, con il sacco di juta sulle spalle che cura di nascosto la sciatica con la pomata. I soliti politici che non mancheranno di farci sapere la loro guardandoci dallo schermo TV. Con il maglioncino in lanetta pregiata in luogo della giacca, l’occhio torvo da panettone, l’alberello sullo sfondo e il burp trattenuto a stento. Certi proclami delle Gerarchie, così disonici con il messaggio di quel bimbo. Che rischiano di scatenargli la Sesta Malattia.

E come per ogni 25 dicembre che si rispetti, che regnino la pace nel mondo e la fratellanza. Che sono poi gli auspici di ogni aspirante Miss Italia che si rispetti.

Auguri dal Garolfo!