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Sbadigli.

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Il Garolfo assesta una pacchetta all’ordigno svegliante e, come un automa, si sradica dalla branda  per rovesciarsi addosso il mucchietto di straccetti accuratamente selezionati alla sera. Via. L’uscio che lo separa dall’universo mondo è ormai alle spalle e l’aria buia, nitida e graffiante lo ammanta come il celofan un bagaglio assicurato all’aeroporto o un cotechino sotto vuoto a capodanno. Le ultime stelle della notte ed una falce di luna bianca a dargli il ben arrivato. Superato il trauma dello scontro frontale con lo stato di veglia, pensa alla gran soddisfazione dell’inerpicarsi, nell’ora in cui i pipistelli cedono vento ai passeri, su per la collina. Ad incontrare l’umanità variegata che si replica ogni mattino nella sua pressoché costante stabilità. Il signore bardato come una mummia, la vecchina ricurva su sé stessa, cordiale e salutante nella sua voce rugosa, lo pseudo atleta che con falcata da gazzella abbaglia di catarinfrangenza. Oltre ad un vasto assortimento di canidi di varia razza, livrea, volume  ed età. Che conducono a passeggio padroni. Respiro ritmico ed anche un po’ ansimante; le suole che battono l’asfalto come un batticarne la sua braciola. Le goccioline di sudore che filtrano nel variopinto copricapo da elfo. Ai lati scorrono i primi fotogrammi del nuovo giorno. Fatti di case ancora assopite nelle quali si palesano, attraverso le prime, romantiche, misteriore ed intriganti luci in cucina,  avanguardie di vita cosciente. Il Garolfo pensa a come sia un privilegio calcare la crosta terrestre  ancora fredda di notte, correndo. Mentre, magari, altri simili avviano o concludono il dì in altri contesti di vita. L’appassionata medica del pronto soccorso che ha salvato l’ultima vita della notte, correndo, sbracciandosi e disperandosi lungo la sua fonda trincea.  La dolce, solare, ridanciana dama moretta che contempla l’alba dalla sua corriera, lanciata verso l’ufficio. Il panettiere che anela al letto sfidando l’ultima rosetta nel forno. E pensa, il Nostro,  sorridendo un po’, come questa sarà, comunque, un’ottima giornata.

A prescindere da come sarà.

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Gocce

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Quelle di “giorgiana memoria”. Quelle di cioccolato. Quelle di essenza profumata o collirio. Anche se le gocce più gradite al Garolfo, essere notoriamente crepuscolare, sono le originali. Spedite da Madre Natura con raccomandata senza ricevuta di ritorno per rammentarci della sua presenza. Le quali gocce, in ordinato stormo attratto dalla terrena gravità, formano il fenomeno meteorologico più semplice, affascinante e vitale. Le piogge. Perché, il Nostro, appassionato dell’arte podatoria e pedalatoria, le ha sentite, osservate, riconosciute, amate, le piogge. Tutte ugualmente affascinanti nella loro autonoma e fieramente rivendicata diversità. La Pioggia da carezza. Che s’adagia delicata su scenografie di foglie gialle, rosse, e marroni. Che già hanno scelto, o sono in procinto di farlo, l’affrancamento autunnale dai loro grandi e piccoli genitori vegetali. La Pioggia intransigente. Che incede incurante per la sua via senza ammettere tregue di tempo ed intensità. E si raccoglie in piccoli specchi torbidi a prova di galoscia e rivoli ciascuno in cerca della propria meta. La Pioggia Canto del Cigno. Che si concede l’ultima danza nel suo cielo chiaro. E che, già sai, lascerà spazio a grumi di nebbia, macchie di blu e scie abbaglianti di sole. La Pioggia fuoco di paglia. Bella ed effimera come la stagione che le appartiene. E, proprio come lei, densa, civettuola e frivola. Prima Attrice che si accompagna a braccetto con comparse abbaglianti e fragorose in un debutto teatrale sfavillante e sontuoso. La Pioggia austera. Eternamente indecisa, nel suo solo apparente algido rigore, sul cedere strada alla più taciturna e materna sorella neve.

Piogge che dilatano tempo e sensi. Se capita di osservarle con un tetto sopra la testa. Attraverso finestre che sventagliano in strada asciutti, gialli, rassicuranti e romantici scampoli di luce soffusa.

Piogge che diradano gli uomini dagli spazi aperti. Perché, si sa. L’essere umano, in specie se italico, è notoriamente solubile in acqua.

La corsa de noartri.

 

GaroCorsa“Quanti chiometri? Niù Iorc?”. Generalmente queste, sono le due domande regine, quando al Garolfo capita di esordire con un  “faccio le maratone”. E allora, il Garo risponde che le maratone son tutte lunghe 42,195 chilometri e che no. “Niù Iorc non ancora, e che forse mai sarà”. Ma all’estero si, la gran parte. Nulla contro il Bel Paese, s’intende. Ma varcati i confini nazionali, al Nostro, correre piace di più. Per una serie di ragioni che, per non annoiare, riassume essenzialmente in due.

  1. La burocrazia. In Italia è richiesto il certificato medico. Per il Garolfo trattasi di finto uelfer (o uelfer ipocrita). Nel senso che, più che sull’obbligo della visita medica, sarebbe necessario puntare  sulla cultura del benessere individuale: “So che la maratona comporta uno stress fisico notevole, sarò quindi io a decidere se, e soprattutto quando, sottopormi a controllo medico”. A tal riguardo, risulterebbe semplice una valutazione sull’efficacia dell’obbligo normativo nostrano. Prendo due maratone con il medesimo numero di iscritti. Firenze e Monaco di Baviera, ad esempio. Per partecipare alla prima serve il certificato medico di attività agonistica, per partecipare alla seconda, manco per idea. Vado sul sito, faccio click, pago, e l’iscrizione è fatta. Dunque, se il numero di “incidenti” in gara sarà il medesimo, allora se ne dedurrà che l’obbligo italico è utile solo perchè “anche i medici dello sport tengono famiglia”. In italia vige inoltre l’obbligo di iscrizione annuale ad una associazione sportiva. Come se una gara podistica possa essere vissuta appieno solo da chi coltiva l’associazionismo sportivo. Ecco che allora il Garolfo rivendica l’oblio podistico. Il diritto cioè di allenarsi e partecipare a gare come individuo in grado di scegiere, di volta in volta, con chi correre, in gara e fuori. Di associarsi, certo. Ma solo se lo desidera. Evitando così il pagamento di quote associative mal tollerate, che appaiono quindi come inutili ed onerosi balzelli destinati a foraggiare le Federazioni ed i loro dirigenti con tre pappagorgie, comodamente assisi dietro romane scrivanie in mogano.
  2. La cultura sportiva.  All’estero, una maratona, una mezza, una baby run, sono una festa. Abitanti trascinati in strada dall’irrefrenabile richiamo dell’evento. Muri di folla, musica, balli, striscioni d’incitamento, applausi dal primo all’ultimo concorrente. Quante volte il Garo, con cotal cornice, si è sentito un’atleta di grido nonostante fosse quasi l’ultimo tra gli ultimi. Nella penisola italica, regno incontrastato dell’Omus Autocentricus, tutto è invece più complicato (ad essere magnanimi). Automobilisti in preda a scimmie che si attaccano al clacson sbattendo irati le mani sul volante. Perchè la strada è chiusa per un paio d’ore e lo spezzatino domenicale della suocera si fredda. Nella migliore delle ipotesi, poi, si corre in un deserto  urbano ammantato d’un silenzio di indolente indifferenza che rasenta il fastidio. Perchè l’italico medio è uno sportivo da divano e televisore.  Che ignora, per lo più, le gioie, le passioni, le fatiche, dello sport “sudato”.

Al Garo spiace quindi constatarlo. Ma l’Italia non è (ancora) la patria del correre gioioso e spensierato.

Clacson.

Il Garolfo, nel destreggiarsi tra i lievi saliscendi della mezza, pensa alla tripla fatica cui deve sottoporsi l’italico podista. Il quale, oltre ai patimenti fisici, è tenuto a cimentarsi in autentici slalom acustici ed olfattivi. I propri simili automuniti, infatti, non non tollerano nella maniera più assoluta la chiusura domenicale di una strada/piazza/vicolo/mulattiera/sentiero/carrugio per un paio d’ore. Inondando il percorso di gara con un concerto mononota di clacson e con gas di scarico a profusione (se si spegne il motore quando si è momentanemente fermi ad attendere quei quattro zotici che si credono Mennea, c’è il rischio che si raffreddi). Il Garo non pretende certo che a bordo strada (come sovente accade fuori dal “Bel” Paese), ci siano centinaia di persone ad incitare un manipolo di tapascioni come lui. Ma non disdegnerebbe neppure che i bipedi con auto sotto il didietro, si astenessero quantomeno dallo sbattere disperati le braccia sul volante e dall’indirizzare a volontari, organizzatori e podisti, gli epiteti più coloriti. Al Garolfo piace pensare che tutto questo veleno, in fondo, non sia il prodotto della totale assenza di cultura sportiva. Ma solamente del timore che il ritardo accumulato causi lo quagliarsi dello spezzatino della suocera, e con esso del matrimonio. O non consenta una tempestiva sintonia con “Scai” TV  per la partita domenicale di pallone.

Accantonati infine i faticosi pensieri, il Nostro taglia il traguardo, stanco ma felice. Con un ultimo pensiero da rivolgere ai vicini cittadini europei. Al loro senso civico ed alla loro cultura dello sport per tutti.  Così geograficamente vicini. Ma (ancora) così idealmente lontani.

Albe.

Il Garolfo assesta una pacchetta alla sveglia, si sgranchisce la mandibola, si veste di tutto punto con la divisa preferita, gettandosi senza indugio nel fresco dell’alba. All’incrocio, attende il resto della truppa GaroRun. Dopo qualche chilometro, le staccionate di legno, ammantate di bianco, prendono a segnare il confine della lingua di terra che scorre sotto i piedi. Mano a mano che i Nostri incedono, i lásciti del genere umano sul territorio si fanno via via più flebili. I veri padroni della crosta tornano ad essere larici, noccioli, faggi, abeti. E le foglie, soprattutto. Di ogni colore, forma dimensione, rumore. Che coprono le readici, i ciotoli, la terra umida. Gocce di sudore cominciano a formarsi sulle tempie, celate ed assorbite dal cappellino nero. Quattro pennacchi di vapore acqueo sbuffano all’unisono ed a ritmo di respiro, lungo la mulattiera che si fa, via via, sentiero. L’aria chiara e muschiata capitola giù nei polmoni senza trovare resistenza di sorta, mentre la luce del primo sole filtra oltre il monte, lasciandosi affettare dai rami spogli. I polpacci bruciano di fatica. Cuore e cervello di gioia.

Suole calde.

Il Garolfo è reduce dalla sua quinta impresa epico-sportiva. Portata a termine anche grazie al supporto fisico e morale della Ciurma del Sabato (e della domenica), all’uopo catapultata (quasi) al completo in terra tedesca per raccogliere il precipitato di tanti freddo,  pioggia, levatacce, qualche acciacco muscolar-scheletrico-articolare (procurato da malsane pratiche di eco-bondage), molta gioia, abbondanti chiacchiere e artigianali tabelle di allenamento.

E ancora ha impresse nella sua (seppur poco poco capiente) memoria, le immgini dello splendido habitat urbano di Freiburg im Breisgau e dei suoi calorosi abitanti (nonché studenti-ospiti) dotati di evidenti e apprezzate inclinazioni Rock & Soul. E già, nel seno della ciurma, prendono ad annidarsi i piani per l’evento prossimo venturo. In proposito, il rabdomante delle maratone pare puntare, ancora una volta, verso nord.

Rotabili.

Giovani esseri umani con ciuffo sporgente, pelle movimentata e pantaloni a mezz’asta. Laptop sulle ginocchia, auricolare condiviso per spartirsi i suoni del lungometraggio. Una ragazza con i capelli lunghi che seguono le spalle ed un vistoso anello etnico al dito, osserva concentrata il proprio libro sollevando di tanto in tanto il capo per distendere lo sguardo. Ad ogni sosta il capotreno fuoriesce dalla cabina per avvicinarsi ed armeggiare alla porta con un chiavistello cistodito da un moschettone zincato. Mano a mano che il serpente metallico incede verso la destinazione finale, la sua pancia si svuota e diventano sempre più nitidi i rumori tecnici di funzionamento, non più coperti dal vocìo dei trasportati. Il Garolfo giace beato accanto al grande finestrino che lo separa da freddo, ombra e brina, che fagocitano, invece, un giovane corridore ben bardato. Che riesce a mantenere lo stesso ritmo del convoglio per qualche frazione di secondo, scomparendo poi tra i cristalli bianchi che avviluppano le ramaglie lungo il fiume. Il Nostro già immagina e pregusta il suo gaudio al termine della seduta, moltiplicati per almeno cento, mille volte da una doccia calda e rinvigorente.

Varcata la soglia automatica, si lascia riaccarezzare dai rigori del clima assieme a svariate decine di persone brulicanti per la stazione. In strada la ragazza del libro e dell’anello etnico si abbandona all’affettuoso abbraccio di un signore ed una signora di mezza età, che la baciano con un trasporto di atteso bentornato. Il Garo può così rituffarsi nell’ecosistema urbano, sazio e rinfrancato dal breve viaggio sul suo mezzo di trasporto preferito. Che probabilmente è tale solo perché, per fare il pendolare, usa la bici.