Alberi maestri.

lares

Il Garo si deterge la fronte staccando la mano destra dal manubrio, senza interrompere l’impegnativa cadenza pedalatoria. Pensa, non senza sorridere, alla rossa e vetusta bici “cancello in ferro battuto” che si trova a cavalcare. Roba da far impallidire (dal ribrezzo), i moderni muntain baichers che solcano la ripida strada sterrata a bordo di lucidi e lievi bolidi, fatti di leghe pregiate e che emettono melodici rumori meccanici che un qualsiasi orologio svizzero, scànsate. Il Nostro scruta gli sbuffi di grigio via via più scuro che si affastellano come strati di una torta alle creme sopra un un cielo che fu blu e annusa l’aroma di una pioggia non distante. Folate di vento prendono a pogare l’una contro l’altra, in una danza senza palco, scenografia né balera, in cui gli spettatori più autorevoli sono loro maestà. Slanciati, imponenti, meditativi ed oscillanti. Quasi a voler assecondare i balli dell’amico invisibile. Frusciano forte, si animano, scortecciano, agitano le loro braccia legnose e scricchiolanti quasi a voler cingere d’amore i vicini. Sì. I vicini. Perchè i larici formano la loro grande comunità montana. Solidali, uniti nel proteggersi e proteggere il bosco fino a sapersi immolare per una qualunque causa. Si protendono verso terra, senza mai cedere. Maledicendo quella resilienza così di moda, che, alle volte, non sarebbe poi così male spezzarsi. Tutti tra loro vicini, ma non troppo. Perché, in fin dei conti, ognuno di loro è solo. Solo accanto agli altri. Con la sua vita, la sua storia, le sue radici. Le sue cicatrici di tempo ed intemperie, dalle quali capita che colino appiccicose gocce di resina trasparente. Solo di una solitudine velata, inconsapevole, nascosta sottocorteccia. Solo. Perchè non ha mai vissuto presenze importanti. Silenti, loro. Fino a quando non decidono di dar voce all’impeto del vento. Che non si vergognano, come i loro cugini abeti, di cambiarsi d’abito e denudarsi, per poi rivestirsi di un colore vivido e tenero, come per onorar l’invito ad una festa o ad una pizza galante. D’improvviso una pioggia bianca, diritta e decisa, inizia a pettinarli. E solo allora, il Garolfo, pur consapevole di non essere solubile in acqua, opta per trascinare sé stesso ed il suo ferro a due ruote sotto una tettoia di scandole. Si siede su un sasso muschiato. Li osserva pensoso con la mente che viaggia verso altri chi, altri dove, altri quando. Sostenendosi il mento con la mano destra. “Ditemi, larici cari. Vi ascolto. Ho tempo. Tutto il tempo che volete”.

Sbadigli.

garo_corsa

Il Garolfo assesta una pacchetta all’ordigno svegliante e, come un automa, si sradica dalla branda  per rovesciarsi addosso il mucchietto di straccetti accuratamente selezionati alla sera. Via. L’uscio che lo separa dall’universo mondo è ormai alle spalle e l’aria buia, nitida e graffiante lo ammanta come il celofan un bagaglio assicurato all’aeroporto o un cotechino sotto vuoto a capodanno. Le ultime stelle della notte ed una falce di luna bianca a dargli il ben arrivato. Superato il trauma dello scontro frontale con lo stato di veglia, pensa alla gran soddisfazione dell’inerpicarsi, nell’ora in cui i pipistelli cedono vento ai passeri, su per la collina. Ad incontrare l’umanità variegata che si replica ogni mattino nella sua pressoché costante stabilità. Il signore bardato come una mummia, la vecchina ricurva su sé stessa, cordiale e salutante nella sua voce rugosa, lo pseudo atleta che con falcata da gazzella abbaglia di catarinfrangenza. Oltre ad un vasto assortimento di canidi di varia razza, livrea, volume  ed età. Che conducono a passeggio padroni. Respiro ritmico ed anche un po’ ansimante; le suole che battono l’asfalto come un batticarne la sua braciola. Le goccioline di sudore che filtrano nel variopinto copricapo da elfo. Ai lati scorrono i primi fotogrammi del nuovo giorno. Fatti di case ancora assopite nelle quali si palesano, attraverso le prime, romantiche, misteriore ed intriganti luci in cucina,  avanguardie di vita cosciente. Il Garolfo pensa a come sia un privilegio calcare la crosta terrestre  ancora fredda di notte, correndo. Mentre, magari, altri simili avviano o concludono il dì in altri contesti di vita. L’appassionata medica del pronto soccorso che ha salvato l’ultima vita della notte, correndo, sbracciandosi e disperandosi lungo la sua fonda trincea.  La dolce, solare, ridanciana dama moretta che contempla l’alba dalla sua corriera, lanciata verso l’ufficio. Il panettiere che anela al letto sfidando l’ultima rosetta nel forno. E pensa, il Nostro,  sorridendo un po’, come questa sarà, comunque, un’ottima giornata.

A prescindere da come sarà.

Gocce

drops

Quelle di “giorgiana memoria”. Quelle di cioccolato. Quelle di essenza profumata o collirio. Anche se le gocce più gradite al Garolfo, essere notoriamente crepuscolare, sono le originali. Spedite da Madre Natura con raccomandata senza ricevuta di ritorno per rammentarci della sua presenza. Le quali gocce, in ordinato stormo attratto dalla terrena gravità, formano il fenomeno meteorologico più semplice, affascinante e vitale. Le piogge. Perché, il Nostro, appassionato dell’arte podatoria e pedalatoria, le ha sentite, osservate, riconosciute, amate, le piogge. Tutte ugualmente affascinanti nella loro autonoma e fieramente rivendicata diversità. La Pioggia da carezza. Che s’adagia delicata su scenografie di foglie gialle, rosse, e marroni. Che già hanno scelto, o sono in procinto di farlo, l’affrancamento autunnale dai loro grandi e piccoli genitori vegetali. La Pioggia intransigente. Che incede incurante per la sua via senza ammettere tregue di tempo ed intensità. E si raccoglie in piccoli specchi torbidi a prova di galoscia e rivoli ciascuno in cerca della propria meta. La Pioggia Canto del Cigno. Che si concede l’ultima danza nel suo cielo chiaro. E che, già sai, lascerà spazio a grumi di nebbia, macchie di blu e scie abbaglianti di sole. La Pioggia fuoco di paglia. Bella ed effimera come la stagione che le appartiene. E, proprio come lei, densa, civettuola e frivola. Prima Attrice che si accompagna a braccetto con comparse abbaglianti e fragorose in un debutto teatrale sfavillante e sontuoso. La Pioggia austera. Eternamente indecisa, nel suo solo apparente algido rigore, sul cedere strada alla più taciturna e materna sorella neve.

Piogge che dilatano tempo e sensi. Se capita di osservarle con un tetto sopra la testa. Attraverso finestre che sventagliano in strada asciutti, gialli, rassicuranti e romantici scampoli di luce soffusa.

Piogge che diradano gli uomini dagli spazi aperti. Perché, si sa. L’essere umano, in specie se italico, è notoriamente solubile in acqua.

Prema cancelletto.

cancelletto

Il Garolfo legge incuriosito giornaletti e sitarelli pappagallo della politica in voga, realizzando come siano  diventati tanto fescion e trendi aggregazioni, fusioni, amalgame, mescolanze, inglobamenti, riunioni, accorpamenti. Di banche, aziende, Comuni, associazioni coreutiche, scuole, circoli anziani e dopolavori ferroviari. Che la spesa, anche pubblica, lungi da noi perchè è spreco. Tutto è all’insegna di risparmi, parsimonie, economie, oculatezze, spending reviù, ricerca spasmodica di misteriose masse critiche. Perchè grande, possibilmente nazionale, internazionale, mondiale e ipergalattico, è bello e risparmioso. Il Garolfo si prefigura così il Mondo dei Giganti lou cost, dove agli sportelli ci saranno macchine, che “quelle costano tanto meno dei cristiani”. Dove i furti sulle bollette domiciliate, perpetrati da aziende elefantiache, si chiameranno “anomalie di fatturazione” e potranno essere reclamati dopo aver sbattuto la capoccia su insormontabili muri di caucciù, tenuti ben eretti a suon di “completi il nostro form sul sito”, “apra un tichet onlain”, “prema uno, prema quattro, prema cancelletto e parli con un nostro operatore”. Il quale, con frasi standard da povero pollo in batteria ipercondite di “in cosa posso servirLA“, “certo, signor Garolfo, Lei ha ragione, ma”, “mi dispiace signor Garolfo, la procedura va in automatico”, darà le consuete informazioni vaghe, contraddittorie, omertose, dolosamente sibilline. Sbatacchiando il povero cristo di turno dall’operatore EA226AR all’operatore AS124MR.

Il tutto con buona pace dei territori, del particolare, del peculiare, del piccolo, agile, sociale e di prossimità. Dove le persone si incontrano, si parlano, si confrontano, si capiscono. E, magari, si strigono la mano. Bevendosi, assieme, un caffè.

La corsa de noartri.

 

GaroCorsa“Quanti chiometri? Niù Iorc?”. Generalmente queste, sono le due domande regine, quando al Garolfo capita di esordire con un  “faccio le maratone”. E allora, il Garo risponde che le maratone son tutte lunghe 42,195 chilometri e che no. “Niù Iorc non ancora, e che forse mai sarà”. Ma all’estero si, la gran parte. Nulla contro il Bel Paese, s’intende. Ma varcati i confini nazionali, al Nostro, correre piace di più. Per una serie di ragioni che, per non annoiare, riassume essenzialmente in due.

  1. La burocrazia. In Italia è richiesto il certificato medico. Per il Garolfo trattasi di finto uelfer (o uelfer ipocrita). Nel senso che, più che sull’obbligo della visita medica, sarebbe necessario puntare  sulla cultura del benessere individuale: “So che la maratona comporta uno stress fisico notevole, sarò quindi io a decidere se, e soprattutto quando, sottopormi a controllo medico”. A tal riguardo, risulterebbe semplice una valutazione sull’efficacia dell’obbligo normativo nostrano. Prendo due maratone con il medesimo numero di iscritti. Firenze e Monaco di Baviera, ad esempio. Per partecipare alla prima serve il certificato medico di attività agonistica, per partecipare alla seconda, manco per idea. Vado sul sito, faccio click, pago, e l’iscrizione è fatta. Dunque, se il numero di “incidenti” in gara sarà il medesimo, allora se ne dedurrà che l’obbligo italico è utile solo perchè “anche i medici dello sport tengono famiglia”. In italia vige inoltre l’obbligo di iscrizione annuale ad una associazione sportiva. Come se una gara podistica possa essere vissuta appieno solo da chi coltiva l’associazionismo sportivo. Ecco che allora il Garolfo rivendica l’oblio podistico. Il diritto cioè di allenarsi e partecipare a gare come individuo in grado di scegiere, di volta in volta, con chi correre, in gara e fuori. Di associarsi, certo. Ma solo se lo desidera. Evitando così il pagamento di quote associative mal tollerate, che appaiono quindi come inutili ed onerosi balzelli destinati a foraggiare le Federazioni ed i loro dirigenti con tre pappagorgie, comodamente assisi dietro romane scrivanie in mogano.
  2. La cultura sportiva.  All’estero, una maratona, una mezza, una baby run, sono una festa. Abitanti trascinati in strada dall’irrefrenabile richiamo dell’evento. Muri di folla, musica, balli, striscioni d’incitamento, applausi dal primo all’ultimo concorrente. Quante volte il Garo, con cotal cornice, si è sentito un’atleta di grido nonostante fosse quasi l’ultimo tra gli ultimi. Nella penisola italica, regno incontrastato dell’Omus Autocentricus, tutto è invece più complicato (ad essere magnanimi). Automobilisti in preda a scimmie che si attaccano al clacson sbattendo irati le mani sul volante. Perchè la strada è chiusa per un paio d’ore e lo spezzatino domenicale della suocera si fredda. Nella migliore delle ipotesi, poi, si corre in un deserto  urbano ammantato d’un silenzio di indolente indifferenza che rasenta il fastidio. Perchè l’italico medio è uno sportivo da divano e televisore.  Che ignora, per lo più, le gioie, le passioni, le fatiche, dello sport “sudato”.

Al Garo spiace quindi constatarlo. Ma l’Italia non è (ancora) la patria del correre gioioso e spensierato.

Torri.

GaroRipetitore

Il Garolfo legge, intristito ma non sorpreso, dei preconizzati quanto malsani appetiti finanziari sulle piramidi d’acciaio di Mamma Rai. Una delle quali scorreva, da sopra in giù, nella celebre sigla di inizio programmi della compianta Rai Pedagoga. Disseminate su pianure, colli, picchi, scogli dello Stivale.  Le più, costruite col sudore dai nostri avi, aiutati da muli, tenacia, passione, desiderio di riscatto, visione nel futuro.  Sfidando terre aspre, rigori climatici, regole della gravità. Quelle stesse torri che recano appesi gli enormi bonghi bianchi e i reticoli metallici dalle forme geometriche più svariate: le antenne.  Che riempiono (dovrebbero riempire) di immagini, suoni, notizie, libertà e democrazia le radio ed i televisori di abitazioni, ospedali, bordelli, uffici, case di riposo, patrie galere. Al Garolfo sovviene l’esempio del tassista che vende le gomme della sua auto, salvo poi doverne affittare di nuove, perchè altrimenti il mezzo lo puoi usare solo come giaciglio improvvisato per la notte, ma non certo per camparci  scarrozzandoci i clienti. Il Garo crede che il motto meno pubblico, più privato, non possa e non debba funzionare per le dorsali strategiche del Bel Paese. Quelle che, veicolando entità immateriali delicate come il cristallo, non possono e non devono essere terra di conquista del mecenate di turno. Pena la svendita dell’etere pubblica e democratica. Perchè da là, alle mutande di ciascuno di noi, il passo è breve assai.

AstroSami.

AstroSami

Il Garolfo vola con l’intelletto tra gli astri. E pensa a quanto terreni, e poco astrali, siano gli italici racconti di una “nostra” dama che è volata fin lassù, ai confini del mondo. Nelle reti ammiraglie del Servizio Pubblico Televisivo, sempre pronte ad officiare le tristi liturgie dei tolc sciò, ad ospitare morbose cronache di delitti e ficscion con la tonaca, il lancio scompare. Riguarda solo gli americani, i russi e, forse, le stelle. Come se quella donna dal sorriso brillante e vivace, nulla avesse a che vedere (e, forse, così è), con la melassa dolciastra che ricopre lo Stivale. Come se la tenacia, la determinazione, la fatica, la costanza, il sacrificio, il sonno, il jet leg, fossero cose secondarie, poco, importanti, avulse dal nostro essere italici. Non meritevoli di una prima serata.

L’americano (l’astronauta, N.d.R.) faceva una cosa disgustosa. Staccava i pezzi di piadina e li prendeva al volo, faceva il buffone (…), lo scemo. Samantha non è sposata. E’ solo fidanzata con un ingegnere aerospaziale francese. Cara Samantha. Tu hai sette mesi di solitudine. Se vuoi fidanzarti con uno dei due che stanno con te, lo puoi fare. Non con lo scemo che si mangia la piadina, ma con l’altro.

Rai Radio Due, CaterpillarAM 24 novembre 2014.

Da noi, conta chi è fidanzato di chi, e magari, per chi già è fidanzato, conta se si fa o meno un altro. Da noi conta se si mangia la piadina e come la si mangia. E se non la si mangia come si deve, pure in assenza di gravità,  si è scemi e buffoni. Magari plurilaureati, pluridecorati e con un curriculum da mazzo tanto. Ma pur sempre scemi e buffoni. Da noi è normale pensare che se una donna (o un uomo) convive per lavoro con altri uomini (o donne) per più di tre giorni, il suo fine ultimo diventi quello di infilarsi sotto le coltri con qualcuno di loro. E chissenefrega del fidanzato, del marito, della missione, degli esperimenti. Il Garolfo pensa a come (almeno) la tivvù e la radio pubbliche, certi accadimenti, li dovrebbero raccontare con dovizia di particolari scientifici, maneggiandoli al contempo con estrema cura, delicatezza e riguardo. Con rispetto sacrale. Come si trattasse di vacche, in India. Per elevarci, renderci (più) attenti, istruiti, rispettosi.  E consapevoli del fatto che i sogni, da soli, non s’avverano. Come questa gran donna, cresciuta tra i monti, c’insegna.